Montemarano, il carnevale più antico del Sud

giovedì 18 aprile 2013

Administrator

| Eventi

Continuando la serie di articoli su riscoperta e approfondimenti delle più autentiche tradizioni irpine, ecco un reportage storico narrativo, sul “Carnevale più antico e originale del Sud”- quello di Montemarano. Il viaggio, fantastico e reale, parte dal percorso delle mascherate sulla labile traccia delle remotissime mura perimetrali del paese per approfondire, con precisi riferimenti storici, le vere radici di una tradizione, caratterizzata da una primitiva danza devozionale, rivolta a tenere lontani dai primitivi villaggi gli spiriti maligni, secondo l’autorevole studioso, E. T. Salmon, incubo ossessivo e permanente delle antiche tribù dell’Irpinia. In questa festa, che si conferma un travolgente baccanale, emerge sempre di più la figura fondamentale del “Caporabballo”, autorevole maschera autoctona e guida indiscussa dei figuranti, di cui, ancora una volta, Aldo de Francesco sottolinea e tiene a rimarcare l’abissale diversità con Pulcinella. Ne nasce alla fine un ritratto distintivo di un paese intraprendente, vivace, ricco di arguzia, inventiva, giovialità, debordante di simpatica vanteria, che l’articolista definisce, con un orgoglioso e lusinghiero “marchio ”: “montemarenisità”. E’ un pomeriggio dal cielo grigio perlaceo, rischiarato all’orizzonte da striature giallo ocra. Un febbraio senza tempo. Pare uno dei tanti cieli invernali di Giuseppe Casciaro, dipinti nel lontano soggiorno nuscano, dal quale spaziava su un suggestivo labirinto di massicci, contrafforti e valli. Al centro di questo fondale montuoso, dal mio paese belvedere - Montemarano- mi godo un vasto panorama: a Nord, in lontananza, le pendici del Maiella, un po’ più giù la cupola del Taburno, a Occidente il massiccio del Matese, l’antico “mons Tifatinus”, a Oriente, i minuscoli monti della Daunia, spersi nel gioco delle onde collinari. E’ un pomeriggio indefinibile ma speciale. Potrebbe essere di secoli addietro, di ieri o anche di oggi. Non importa di quale età. Importa la vitalità che trasmette e tramanda alla mia gente allegra e gioviale. E’ Carnevale: so soltanto che qui vive degnamente da epoche immemorabili su un trono frugale e festoso. Appena si entra in paese, gente del “loco” e “forastera”, addensata a capannelli sui marciapiedi o davanti ai bar, ne attende la trionfale uscita. Molta viene da lontano, molta altra dai centri vicini: è una consuetudine assistervi. E’ domenica, il primo dei tre giorni di una festa di popolo unica, considerata tale non per millantato credito ma per un blasone, meritevolmente conquistato, in secoli di storia e di fantasie. Questo giorno, come nessun altro, unisce passato e presente, azzera i risentimenti, anima la staffetta dei ricordi: una inesauribile narrazione, di cui tutti, senza distinzione di ceto o di età, si sentono giullari e affabulatori. “Ti ricuordi quanno”…l’incipit è lo stesso, ricco però sempre di nuovi intriganti risvolti. Si parte dalle “Primavere Sacre” degli antichi Sanniti - V e IV secolo Avanti Cristo- feste tribali di commiato nei ciclici raduni migratori, in cui i giovani sfidavano il destino seguendo il più totem più propizio: lupo, toro, picchio, gallo- per giungere al ’600, ai carri e alle maschere di rivalsa satirica e allegorica contro le nobiltà parassitarie, i primissimi nuclei di un ingordo notabilato borghese. A differenza dei puntigliosi palii medievali o di altre importanti kermesse carnascialesche come Viareggio o Putignano, il Carnevale di Montemarano non richiede preliminari snervanti, basta un annuncio per accenderlo e dare inizio al baccanale. Poche parole per disporsi a vivere coralmente un rito evocativo, scaramantico, terapeutico e di belle memorie, dopo le rigide liturgie delle “Quarantore”. “È assuto Carnovale!! E’ assuto Carnovale” Eccone preludio e trama. Appena, si sente e si diffonde l’annuncio speciale, da un capo all’altro dell’abitato dilaga, per uomini e donne, grandi e piccoli, l’eco festosa della tarantella come un irresistibile invito. Non fa niente se al “Ponte”, dove s’aggrumano gente e venti, il freddo incombe: una maschera in faccia, un salto nella mischia e si scioglie ogni ambascia, come i ghiaccioli alle grondaie, dita, ginocchia e braccia anchilosate dal gelo. Per generale incanto, si esce dalle anguste solitudini quotidiane. Gruppi di “caporabballi” e plotoni di “pulicinielli”, le maschere dei cortei carnascialeschi, schierati davanti a batterie di organetti, ciaramelle, clarini, tamburi e nacchere danno inizio alla lunga maratona danzante: per tre giorni e per tre notti si balla, si canta, si svuotano fiaschi e cantine. Il vino, risorsa sempre più preziosa, l’oro rosso delle nostre terre, in questi giorni riconquista l’antica dignità sacrale come cura dell’anima e del corpo. E’ la strada maestra per ricongiungersi inconsciamente alla pienezza dei miti, alle origini della civiltà mediterranea gaudente, dionisiaca, greca e latina, da cui discendiamo. Lo conferma la intensa socialità “simposiale” che accompagna le mascherate nel percorso perimetrale del paese. “Al Carnevale non si assiste, ma si vive, e lo si vive tutti perché esso, per definizione, è fatto dall’insieme di popolo. Non esiste altra vita che quella carnevalesca. E’ impossibile sfuggirvi, il Carnevale non ha alcun confine spaziale. Durante tutta la festa si può vivere solo in modo conforme alla sue leggi, cioè secondo le leggi della libertà. Questa festa non conosce distinzioni fra attori e spettatori. Non conosce il palcoscenico neppure nella sua forma embrionale, il palcoscenico distruggerebbe il Carnevale”. Il distico, attribuibile al filologo sovietico Michail Bachtin, sembra scritto apposta per Montemarano. Ci sono tutti: il giovanotto abbracciato all’innamorata, il marito con la moglie che non lo molla un istante, il vecchio e la vecchia ridenti e sdentati: è questa la composita spensierata corte di “re contadino”. E’ un canovaccio molto antico, rigorosamente rispettato: i forestieri, i turisti, i curiosi saltano e scattano foto, i montemaranesi ballano e ondeggiano per l’allegria, o forse, è meglio dire, “dandareano”, per esprimere la totale sintonia tra gesti e musicalità. Una volta in piazza- Piazza del Popolo- nella cantina- locanda di zì Maria ’e Rachele, la moglie di un brigadiere, bella, prosperosa e dal seno “stuzzicante”, si vestì da “cantenera”. Una maschera da scomunica in un paese dove le chiese erano ancora intrise di moniti e cartelli perentori, post tridentini, pena la cacciata dal paradiso: “In chiesa si entra con il capo coperto”. Quel crapulone di Nicola Mongiello appena la vide, disse a Celestino ’o cucchiere, compagno di scopa, briscola e pizzico: “Cucchiè, e che riazzia ’e ddio; trasimmo, jammo a bberè a’ cantenera che tene int’’a vantiera?”. Appena posarono gli occhi su quel davanzale danzante , arrivò il brigadiere, e “ ’a cantenera ’e pressa se cummigliao ’a vantiera ”. Grazie alla tarantella locale, frutto di estro e di “passioni doc”, che travolge, scuote, ravviva le coscienze, elettrizza i desideri con suoni, ritmi, modulazioni vertiginosi, all’improvviso svaniscono remore, preoccupazioni e affanni. Tanti anni fa ad accompagnare i balli vi era un bravo maestro solista- ’Mbrusino, calzolaio ed espertissimo musicante, conteso da numerose bande del Sud: quando suonava, torceva il clarino per inseguire gli acrobatici volteggi delle note. Uno spettacolo vederlo e sentirlo, altrettanto accadeva a Minico e Gianni ’e Nnina, mentre animava il suo agile organetto tirolese. La festa si preparava mesi prima ma il giorno dell’evento a menare le danze erano la estrosa imprevedibilità dell’ improvvisazione, la fantasia dei singoli, le sorprese, gli scherzi, le burle e gli scherni: insomma il carattere distintivo della mia gente, libero e bizzarro, come le detta da sempre dentro. Mons. Antonio Sena, nell’800, cosi scriveva dei concittadini montemaranesi: “Sono di indole buona, ma attaccati al sentimento dell’amor proprio così che passano facilmente dal divertimento all’ira ad ogni parola che vada ad offenderli. Sono però ospitali, affezionati, disinteressati ed amici specialmente co’ forestieri”. Ai tempi dei fabbri, dei sarti , dei falegnami, di un fiorente artigianato, un orgoglio condiviso e sempre evocato come una ricchezza perduta, ogni sera si svolgevano le prove nelle botteghe e nei “sottani”, appositamente attrezzati. Spesso dietro la passione delle mascherate si celavano veniali gelosie di mestiere, orgogliose ripicche e contrarietà di vicinato, roba trascurabile rispetto alle odierne insidiose perfidie del globalismo. Piazza e Ponte, tradizionali avversari, se le cantavano e suonavano di santa ragione appena le rispettive mascherate si incrociavano davanti alla bottega di Minico ’e perecone o di Minicuccio ’o zoppariello, o meglio ancora nello slargo del Cuore di Gesù al Cantone, sosta obbligata per prendere fiato, “pe’ ghiatà”. Se le suonavano, per dire che ciascuno di loro dava il massimo di sé nella esecuzione della magica tarantella, puntando a lusinghieri apprezzamenti. ’Mbrusino, verso sera, con “l’infocarsi delle mascherate” quando il fiato cominciava ad arrancare, si teneva su con “flebo” di vino e una damigiana rassicurante al seguito, in vista degli straordinari notturni. Molto caratteristico lo slargo del Cantone per le sue tre raccolte chiesette, in cui, soprattutto, in una- quella detta dell’Immacolata - un tempo, convento gemellare dei frati minori di San Francesco a Folloni- echeggiarono, nel 1600, le ferme e poderose parole di uno dei più grandi quaresimalisti del Sud, Fra Celestino Doto da Montemarano, una gloria ancora poco conosciuta in paese. Passarvi accanto, soprattutto mascherati, ha sempre suscitato pensieri meno effimeri. Lo stesso accadeva davanti al vecchio tempietto del Purgatorio, una volta cimitero, fino all’editto di Saint Cloud, che impose le sepolture fuori dell’abitato, oggi Museo di Parati e arredi sacri. Qui è tuttora visibile la riforma della Chiesa in una serie di sanguigni affreschi, opera di ignoto, che ricordano l’obbligo imperioso della preghiera per meritarsi grazia e salvezza. Pochi attimi per interrogarsi, meditare e subito ci si rituffava nel delirio della festa. Chi si vestiva da Cleopatra, regina del Nilo, chi da Faraone, chi da “lazzarone”: il piacere più diffuso consisteva nel rovesciare in testa alla gente, per lo più amica, sacchetti di confetti, a manciate, spesso addirittura a cascate. La spesa per i costumi e soprattutto per i confetti diventava un lusso ma i “potèari”, gli esercenti, persone giudiziose e comprensive, sapendolo bene, rinviavano il saldo dei debiti, ad agosto, alla festa del patrono, San Giovanni, quando delineati i bilanci dell’annata si definiva il tetto delle disponibilità. Un paese rurale non può non fissare le scadenze più impegnative in base al calendario agrario. Per quanto sobria, discreta e misurata la vita di tutti i giorni, le famiglie, abbienti e non, facevano a gara in questo giorno a chi meglio riuscisse a onorare la tradizione dell’ospitalità. La sera si aprivano i palazzi , i salotti, le cucine; era un grande onore ricevere visite di parenti, amici, “caporaballi” e maschere, cui venivano riservati pietanze speciali. Un modo molto cordiale di consolidare vecchie amicizie, coltivarne delle nuove , nel segno beneaugurante di un evento di ineguagliabile armonia. Le strade e i vicoli avvolti dagli odori di teglie di tortiere di capretto, di tegami di ragù, di lasagne e timballi lasciavano pregustare, già nell’approssimarsi, le varie delizie gastronomiche. Memorabili le mangiate nelle notti di balli e contraddanze, che si consumavano lentamente fino all’alba, a “matutino”. “Matutino”, una parola da “levataccia” in un paese di montagna e di forte vocazione rurale, che soltanto a Carnevale, una volta all’anno, aveva un sapore meno amaro, per la licenza, sempre accordata, di potersi concedere qualche ora di sonno in più. Che singolare calore umano si provava a ballare nelle case, in salotti stipati di gente e di arredi un privilegio solo carnevalesco: appena si entrava, riversando come omaggio sui padroni di casa, confetti e baci di cioccolata, era inenarrabile quel senso di illimitata libertà. Che non ha mai superato il confine della decenza, del rispetto anche negli scherzi più estemporanei. Mai uno screzio, un insulto. Piuttosto qualche bacio furtivo o qualche “acchiappanza” senza malizia, in linea con il versetto millantatore della tarantella che promette: “Si t’’angappo int’’o scorone, mamma mia che t’aggia fa’” Oggi con la scusa dall’ammùina dei cortei carnevaleschi, sott’accusa per eventuali, temuti danni a “console” e cristallerie di valore, si è persa la cortese e ospitale usanza. Anzi si è quasi estinta. Il progresso spesso presenta ostacoli insormontabili, non tanto per ragioni di opportunità logistiche ma per una diversa “location” del divertimento, che oggi privilegia bar, locali pubblici, pub. Cambiano i gusti e tendenze: una volta per contentarsi bastavano un bicchiere di vino, un pugno di struffoli e “sorrisi mascherati”. Il paese si riteneva il luogo più bello e accogliente del creato, dove potersi divertire a piacimento con estrema semplicità. Nonostante comprensibili cambiamenti, la magia resta immutata: chi anche oggi riesce ad assistere, a vivere solo una volta questo Carnevale, vi ritorna anche se sta male. “Oji simmo chini ’e luce, barri , pabbi, cafè e discoteche. Tanno erono n’ata cosa ceroggini e le bbecchie potèe: c’’a miseria cchiù neora se campava ’e fantasia e ’a vita, int’’o scorone e senza tilivisione, era puisìa..” Visto così l’evento nel suo svolgersi allegro, potrebbe apparire soltanto un brulicame di gente, invece è molto altro e di più profondo: rappresenta una stratificazione di molteplici culture- religiose, laiche e soprattutto popolari- con i loro distinti rituali, di decine e decine di secoli. Tale ricchezza ha posto la festa al riparo da sommari giudizi “folcloristici”, collocandola tra le maggiori e più degne manifestazioni di cultura e di autentica espressività. Per la mia parte, ne sono fiero, avendo sempre difeso e tutelato questo aspetto nei miei numerosissimi scritti e articoli sul Carnevale, confutando approssimative, generiche scorciatoie valutative. Dicevo all’inizio, il Carnevale abbraccia un arco di tempo che va dall’antico mondo agrario, delle civiltà silvo- pastorali, di un popolo di pastori e agricoltori ( la cui cultura agreste fu nel Medioevo soccorsa da un vescovo riformatore e santo, Giovanni da Montemarano)- per poi riversarsi, nel ’600 nel filone più positivo di questo secolo, grazie all’ opera dei Caracciolo, illuminata per mecenatismo, sconfinato amore verso cultura e arte. Si deve al loro mecenatismo di fervore rinascimentale, in un secolo, dove vigeva un capillare parassitismo gentilizio, causa di ingenti danni, pagati a caro prezzo nei secoli successivi, la prestigiosa presenza a Montemarano di Gian Battista Basile. Il più grande poeta dialettale del mondo, come governatore, trovò qui anche un ambiente ideale per completare “Lo Cunto de li Cunti” nella pace raccolta del nostro Castello. Un’ importante circostanza non solo di seria documentazione biografica ma soprattutto di forte cifra culturale: lo si può verificare, esaminando il suo capolavoro- di cui raccomando la lettura in particolar modo ai giovani- essenziale per conoscere seriamente il nostro passato. Sotto il profilo lessicale e delle trame fiabesche , è sorprendente l’affinità di alcuni arcaici termini dialettali montemaranesi con quelli de “Lo Cunto”, in particolare nella condivisione dei proverbi, posti come morale in calce a ogni fiaba. Si ritiene che qui il poeta abbia trovato quel fecondo “granaio” vernacolare, tanto sperato, da cui attinse ulteriori spunti narrativi. Ne cito uno per tutti- “Pur’’ i pulici tenono ’a tosse”- ma potrei elencarne tanti altri, a noi molto familiari dall’ infanzia, quando li sentimmo esternare per strada o accanto a bracieri e camini. Ma c’è molto di più in questo Carnevale irpino, il più antico e longevo del Sud, osservandone attentamente i cortei mascherati che invadono, si addentrano nell’abitato, trascinandosi dietro spensieratezza e allegria, con il gioviale fruscio dei torrenti del disgelo. Il suo itinerario, dopo molti secoli, continua a testimoniare e a svolgere un fedele racconto sulle origini remote di Montemarano, ne scandisce la storia e l’ età fondativa, ecco perché la festa, prima che per strada, si vive da tempo nelle case in un’ attesa densa di aspettative, carica di positiva immaginazione. L’ odierno percorso- Cantone, Prevola, Uva Spina, San Benedetto di sopra e di sotto, Pretare- nel ricalcare una traccia di primitive processioni propiziatorie, fa riemergere l’originario impianto urbanistico degli antichi villaggi sanniti, muniti di mura poligonali di difesa e di osservazione. Molti di questi- ricorda Virgilio- erano poco più che “fortezze in cima ai monti, adattate alle asperità del terreno e sorte per necessita strategiche”; più dettagliate invece le notizie di Seneca che dice “molte di esse erano nascoste su dirupi sassosi”, appunto come Montemarano. Tutti elementi di un “identikit” su abitato e religiosità pagana- risalenti al IV secolo Avanti Cristo- quando le mura, nate con prioritarie finalità difensive contro assalti di soldataglie, disertori e mercenari, funsero anche da percorsi di danze scaramantiche contro gli spiriti maligni. Vorrei a riguardo aggiungere, per uscire dal circolo vizioso di talune generiche affermazioni sugli spiriti maligni, valide per ogni luogo, che la pratica devozionale “scaccia-spiriti”, anticamente e non solo anticamente, in Irpinia ebbe cadenze quotidiane, essendo i nostri antenati ossessionati dai fantasmi, dall’incubo di trovarli ovunque; lo afferma T. E Salmon, uno degli studiosi più attendibili sulla storia dei Sanniti. Parrà singolare ma qualcosa di tali remote ossessioni influenzò, senza che noi ne immaginassimo il motivo, anche le nostre generazioni . Ricordo che, da ragazzo, ogni qualvolta ci si allontanava, con gli amici o dagli amici, dai luoghi dove si svolgevano i nostri giochi o ci si addentrava nel buio, c’era sempre chi, per spaventarci, diceva: “Attiento, ca esse l’ombra”. L’ombra è stata la compagna più antipatica della nostra adolescenza. Nel rituale percorso delle maschere, cui qualche secolo fa si è aggiunta la variante di Via Roma - la parata nella strada principale, post risorgimentale- a mostrarci e a confermarci l’ancestrale significato di questa festa e sempre di più la monumentale figura del “caporabballo”. Con il suo camicione, il cappello conico o gibboso, egli svetta dovunque alla maniera di un “corifeo”, di una guida carismatica, da capo tribale indiscusso, la cui “origine” risale al primitivo mondo agrario. Va ricordato che il cappello, dal latino “titulus”, quando diventa un capo da cerimonia importante, spesso, dalle nostre parti, muove al riso e a un interrogativo scherzoso: “Addà pigliato ’stu tutolo?”. Coeva a questa maschera, da “Mimus albus”, tutto bianca, ne aggiungerei un’ altra- il “Mimus centunculus”- fatto di toppe variopinte, in definitiva il nostro odierno “pezzaro”. Un salto plurimillenario. La funzione del “Caporabballo”, iperattiva e dinamica, potrebbe discendere e essersi ispirata alla lontana a quella del capo tribù, che guidava le migrazioni, dei giovani nelle “primavere sacre”, e che si concludeva con una festa di addio per coloro che lasciavano il villaggio. Rappresenta il simbolo del comando, della disciplina, dell’armonia comunitaria, difatti è lui e non altri che vigila sul corretto itinerario carnevalesco con un bastone, che, in dialetto, si chiama “piroccola”. E’ una sorta di scettro di radici “greco- latina”, da “pur, puros: fuoco e colo, curo, bado”, adoperato da una tipica figura patriarcale; che, a sua volta, se ne serviva per attizzare, tenere sempre acceso il fuoco per ritualità domestiche e di beneauguranti fortune. Nei “Fasti” di Ovidio si racconta degli Dei dei focolari che partecipavano ai pasti con la famiglia, seduta sugli scanni davanti al fuoco, considerato sacro, presente nei loro quotidiani culti. Riconosciuto da sempre come suprema autorità della mascherata, racchiude, per usare una espressione attuale, ogni funzione di “prevenzione, sicurezza, tutela e anche di sovranità”, vigila sul rispetto delle tradizioni e sul corretto svolgimento della festa. Autorevole, carismatico, alla testa del corteo, coadiuvato dai giovani che devono farsi ancora le ossa, il “Caporabballo” è il grande timoniere di “traversate terrestri” non facili, dovendo spesso frenare il baldo e confidente ingegno giovanile e qualche immancabile intemperanza di un moderno baccanale. E’ lui la vera, inconfondibile maschera autoctona, tipica, locale. Capita però che il suo abbigliamento lo faccia spesso accostare alla figura di Pulcinella; ma è un paragone insostenibile: tolta una esteriore affinità di abbigliamento, va subito detto e chiarito, che, tra il nostro “Caporabballo” e il Pulcinella, c’è una differenza abissale, di carattere e di comportamento. Pulcinella è un personaggio popolare della Commedia dell’Arte, portato in piazza agli inizi del ’600, come il prototipo, l’esemplare del “tiriamo a campare”, da “storta va, diritta vene”; una maschera che, pur se molto simpatica, porta su di sé, in maniera egregia e scanzonata, i più nascosti e palesi vizi dell’umanità. La prima testimonianza è nel “Viaggio del Parnaso” del poeta dialettale napoletano Luigi Cortese, scritta intorno al 1621 e il 1627 in onore di Gian Battista Basile creato “conte e cavaliere” per i suoi meriti letterari, in cui si banchetta, si balla e infine viene recitata una commedia di derisione verso i toscani Tornando al suo identikit, Pulcinella è mangiatore “vorace, istrione di piazza, villano inurbato, rappresentante cencioso del popolo schietto, non ha un ruolo fisso, è vittima , raggirato, bastonato, furbo, mazziatore, idilliaco, grottesco, imbroglione e spaccone”, e come gli spacconi che millantano prodezze alla fine deve subire solo burle. La letteratura lo fa a pezzi, non parliamo poi di certa sociologia oltranzista e insofferente, che lo impiccherebbe addirittura, considerandolo il nemico numero uno del progresso e dello sviluppo, soprattutto quando è preso come esemplare del “lazzaronismo” napoletano. Benedetto Croce, tracciando un giudizio molto sintetico sulla filosofia di vita e comportamentale di Pulcinella, dice che “rappresenta i caratteri universalmente umani”. Domenico Rea rincara la dose e ne amplia le accuse nel “Re e il lustrascarpe””: “Il popolino e la nobiltà napoletana hanno riso alle spalle di Pulcinella per tre secoli tondi tondi, senza sospettare che ridevano di se stessi nel modo più infame”. Insomma è una maschera diametralmente opposta al “Caporabballo”, figura questa, invece, autorevole, seria, misurata che si fa rispettare: parla quando occorre, agisce come deve, evita le sbronze, rispettando un ruolo, sempre più spesso tramandato in famiglia. Sono questi gli elementi, che rendono l’evento montemaranese una storia a parte, il più originale e antico rispetto a molti altri; che- senza voler declamare riduttive distinzioni o ridimensionarne fascino e specificità- sono in prevalenza quasi tutti, “clonazioni del Carnevale vicereale”, di cui “La canzone di Zeza” era e rimane il pezzo forte, diffusa nel ’600 e ’ 700, poi nel regno di Napoli con specifiche varianti . Quando mi chiedono perché tutto questo è accaduto qui, lo spiego subito. Sfrondando il mio animo risposta da ogni simpatia campanilistica, affido la risposta alla versione più convincente sul concetto di mentalità al grande scrittore Raffaele La Capria. C’è, dice lo scrittore, una storia lenta, che ha poco a che fare con la volontà degli uomini e più con l’inconscio dei popoli. Ha a che fare con l’antropologia, i vezzi, le passioni dell’uomo, con i miti, le sopravvivenze, la lingua, il dialetto, i personaggi, le tradizioni e le superstizioni, con tutte quelle cose che concorrono insomma a formare una mentalità. Che, nel corso dei secoli, finisce poi per caratterizzare gli individui, l’anima collettiva, positivamente o negativamente. Ora rapportando ciò che afferma, in generale, La Capria, al particolare “fenomeno di Montemarano”, cioè a un insieme di concomitanti fattori- forti radici di civiltà rurale, sopravvissute a varie contaminazioni, fantasia, giovialità del popolo, senso religioso ma anche laico della vita , un equilibrio esistenziale che non rende il popolo né bigotto né irriverente, una cultura ultra millenaria del vino di ineguagliabili virtù, il saper vivere, un patrimonio di tradizioni popolari uniche , che ha avuto un notevole filone baracco- si intuisce la ragione complessiva di una originale estrosa mentalità, che io definirei: “montemarenesità”. La “sindrome di Stendhal”, provata e raccontata dal grande scrittore francese, è quel senso di mancamento, derivante a volte dalla eccessiva emozione che si prova al cospetto di un’opera d’arte, di un capolavoro della natura o dell’uomo. Montemarano, invece, può gloriarsi di avere l’esclusiva di un’altra sindrome, di opposto effetto: quella del Carnevale, che a chi lo vive, lo sente, trasmette una tale vertiginosa eccitazione, da sentire la voglia irresistibile di unirsi al travolgente baccanale. In conclusione? “’Sta festa è robba ’e ’no popolo giuviale e ’ndisto ca è bbinto stienti , friddo, fame e tutt’ o riesto. E’ ’na bella lizzione ’e vita ca ogn’ anno fa dice a chi s’accire ’a fatià: chi te lo fa fa’? Vieni qua!” (Le illustrazioni sono tratte dal suo “Viaggio pittorico nella terra del folk”)