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Rassegna Stampa
MONTEMARANO - Il disco verde, da parte della Regione Campania, alla installazione e all’esercizio di un impianto eolico da 3, 8 mw in località Cerreto del Comune di Castelvetere sul Calore ai piedi del Monte Toro, sta suscitando vivaci reazioni. Non tanto a Castelvetere ma a Montemarano, che sarebbe penalizzata, dal punto di vista paesaggistico e ambientale, dalla costruzione dell’impianto. Monta quindi la protesa contro il varo della iniziativa, in fase già avanzata: è di mercoledì 27, la conferenza dei servizi, cui non sarebbe stata data la possibilità di partecipare alla rappresentanza di Montemarano.
Dopo la presa di posizione ufficiale di questo Comune- espressa nei giorni scorsi in consiglio con voto unanime della maggioranza e della opposizione di netta contrarietà al varo dell’opera – riteniamo giusto parlarne con Aldo de Francesco, che ha scritto significative pagine sulla storia, il costume, le tradizioni di questi luoghi.
E’ una lunga, interessante conversazione nella quale egli ci illustra le motivazioni di eminente natura culturale: paesaggistica, storica, antropologica, di equilibrio dell’ecosistema che, a suo avviso, dovrebbero spingere a scongiurare questa scelta, definita “assurda”.
Per ironia della sorte, uno dei suoi ultimi libri, è una raccolta di poesie dialettali che si intitola “Viento ’e cimma”, cioè vento proveniente dalle cime, che circondano Montemarano, il suo paese - vento dal greco “anemos”, cioe “anima”, anima dei luoghi: un vento, di cui egli si definisce un fedele “alunno”, come altrettanto lo sarebbero un po’ tutti i monte maranesi, trasmettendo il suo soffio vitalità, inventiva, insomma energie positive.
Per cominciare, secondo lei, per l’energia “pulita” non si può “svisare” il paesaggio?
«Appunto. Provo infatti tristezza e indignazione - esordisce De Francesco - per la destinazione di questo insediamento, sostenibile dal punto di vista energetico ma inaccettabile sotto il profilo paesaggistico e di rispetto delle peculiarità: culturale, antropologica, faunistica del territorio. Ricordo che, dagli anni Cinquanta, intorno al perimetro del Monte Toro, figurano una infinità di tabelle con scritte: “Divieto di caccia. Zona di ripopolamento”, tuttora visibili e penso attive. Va da sé che, in presenza di un parco eolico, con due gigantesche turbine e un consequenziario ingorgo indotto, non ci vuole la zingara per indovinare che sarà sfrattata la selvaggina stanziale, da penna e da pelo, e finirà fuori rotta quella migratoria. Temo che, ancora una volta, ci si trovi di fronte alla doppiezza di certa burocrazia, abile nel far quadrare un groviglio di leggi e leggine e sconcertante nel mortificare civiltà, cultura e identità dei luoghi. Prima di avventurarsi in opere del genere, occorreva farsi seriamente carico delle sensibilità locali, non presumere di mettersi con la coscienza a posto attraverso la consueta liturgia dei termini di impugnazione.»
Capisco il suo sdegno ma che cosa maggiormente non condivide?
«Qui, secondo me, v’è una inaccettabile convergenza di errori, qualcuno addirittura buffo. Evidentemente chi ha portato avanti questo progetto, preso dalla fretta di raggiungere ad ogni costo le proprie finalità, non ha saputo valutare le compatibilità dell’opera, talmente delicate e serie che vanno al di là della stessa valutazione sulla correttezza o meno delle procedure. Insomma: non basta un anemometro, un misuratore del vento, per far sorgere un impianto eolico ma occorreva per prima cosa approfondire, ampliare l’attenzione sulla identità remota dei luoghi, guardarsi bene intorno.
Se ciò fosse stato fatto, si sarebbe da subito dimostrato inopportuna la scelta del fondo Cerreto. Consentire la possibilità di questa installazione sotto il Monte Toro, avamposto dei Monti Picentini- da cui prende nome l’omonimo parco – suona come un madornale autogol.
La considero una incongruenza, che cozza con il buonsenso, a mio avviso destinata a far perdere credibilità all’ organismo di promozione e di tutela ambientale, a diventare un tormentone. È come se davanti a un giardino zoologico mettessi un laboratorio per la vivisezione. Ma qui c’è dell’altro, ecco perché parlavo poc’anzi di scarsa lungimiranza, si è ignorato un elemento di forte valore culturale, dissuasivo per questo tipo di impianto: a un tiro di schioppo dal fondo Cerreto, c’è Civitella, poi Cisauna, potenziale tesoro archeologico, tutto da esplorare, dove si insediarono le prime tribù sannite, un villaggio andato distrutto ai tempi della Terza guerra sannitica»
Terza guerra sannitica? E’ mai possibile che tutto questo sia sfuggito a Regione, Comuni e enti di salvaguardia ad ogni livello?
«Non v’è da meravigliarsene. Capita anche nelle migliori famiglie. A Napoli la realizzazione del tratto di Metropolitana di Piazza Municipio ha subìto notevoli ritardi perche è stato erroneamente progettata sull’area del vecchio porto romano e della “Selleria” aragonese, la piazza dei tornei del 1400: i progettisti o non sapevano o hanno ignorato quello che era invece da sempre noto agli storici. Tornando a Civitella, poi a Cisauna, in quest’area del Monte Toro vi sono tracce risalenti al V e IV secolo a. C di una “cittadella” strategica, un “oppi dum” per il controllo dei traffici di varia natura- bellica, commerciale, di transumanza- tra Adriatico e Tirreno, che pagò però, a caro prezzo, questa sua particolare funzione, nel corso della Terza guerra Sannitica, intorno al 290 a. C, quando fu distrutta dal console romano Lucio Scipione Barbato, in marcia verso la Lucania. Suggestiva la descrizione che ne fa Ausilio Amerigo Nazzaro, paragonando “il “pagus”, capoluogo dei “vicus” situati alle falde della Montagna di Chiusano, a una piovra che stendeva e ritirava i propri tentacoli di osservazione a secondo i pericoli”. Peccato che l’unica volta che non gli riuscì di farlo, finì con un’ecatombe e la diaspora di un popolo di pastori e di guerrieri».
Da quanto dice, lei auspica che, da questa vicenda, potrebbe casualmente essere riscoperta Civitella, il villaggio fantasma?
«L’ho sempre auspicato, sarei felice se da questo odierno “pasticcio” eolico dovesse invece prendere forza una diffusa sensibilizzazione sulla riscoperta di Civitella e dintorni. Quassù forse c’è la possibilità di venire a capo, approfondire le ricerche su consuetudini, usanze e costumi degli antichi Irpini, non ancora del tutto chiari e conosciuti. Qui sono stati rinvenuti vasi di terracotta, rudimentali utensili che i pastori sanniti barattavano nelle loro transumanze; sono affiorate anche resti di necropoli con lastre di terracotta, mazze, cinture, palle di piombo a forma di ghiande come quelle usate dai romani per caricare le fionde. Ora anche se il plurisecolare saccheggio ha fatto perdere preziose testimonianze, questo luogo, a qualche chilometro da un’altra contrada di Castelvetere, volgarmente chiamata a “li tauti”- da “Taùtos”, toponimo degli originali villaggi osco- sabellici, potrebbe colmare i tanti vuoti sulle nostre remote origini. Vale la pena di ricordare che, secondo autorevoli studiosi, a Castelvetere vi sarebbe la presenza di rovine del periodo sannita mai identificate. Dopo quanto detto, meglio puntare su preziose preesistenze con progettualità escursionistiche, naturalistiche più compatibili con i nostri territori ormai di conclamata vocazione agrituristica e anche culturale, considerando in Alta Irpinia i giacimenti, non esigui e significativi, presenti nelle nostre chiese».
In questi giorni un prestigioso conterraneo Francesco De Sanctis, pronipote e omonimo del grande pensatore di Morra, attualmente presidente del Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici, ha lanciato un “manifesto” su cultura e paesaggio, destinato a far riflettere di più rispetto al passato e seriamente su talune scelte. Che cosa ne pensa?
«Io ho avuto il privilegio di leggerlo, e sono entusiasta del presupposto dal quale riparte il prof. De Sanctis, riaffermando il concetto di “cultura e paesaggio” quali beni comuni indisponibili, mettendo in crisi una serie di parametri consolidati. Ora la tutela di un bene comune impegna a un fondamentale “imperativo ipotetico”, del “se vuoi…. puoi”. Un “Se vuoi…. puoi” che rafforza la difesa della sacralità e della intangibilità della montagna come valori indisponibili da rivendicare per preservarla da ogni turbativa, applicabile all’odierna vicenda del Monte Toro, nel suo insieme, parte essenziale della nostra vita, del nostro paesaggio, della nostra memoria collettiva, della nostra anima. “Una montagna- diceva John Berger- occupa sempre il medesimo posto , e la si può considerare quasi immortale, ma chi la conosce bene sa che non si ripete mai . Quando guardiamo una montagna che ci è familiare, certi istanti sono irripetibili”. Sono irripetibili se però non ne mutiamo il paesaggio. Una lezione universale in tal senso ci viene anche dal grande pittore francese Paul Cezanne, che ossessionato dal timore di temerne il corrompimento, passò una vita a dipingere la sua bella montagna dirimpettaia di Sainte Victoire, ritratta in tutte le ore del giorno e in molte versioni stagionali, di tonalità e di stato d’animo, non per voglia maniacale ma per esaltare quel legame indissolubile tra Uomo e natura, cultura e paesaggio. Ho citato di proposito Paul Cézanne perche c’è una somiglianza straordinaria tra Sainte Victoire e il Monte Toro, come noi lo vediamo da Montemarano, vogliamo continuarlo a vedere, sono stato abituato a vederlo dalla mia casa paterna, vivendo quella magica intoccabile continuità tra storia e paesaggio».
Per dire queste cose, penso che bisogna provare particolari sensazioni, che a questo punto vale la pena di conoscere, ce può spiegare qualcuna?
«Ogni qualvolta torno in paese e guardo la mia, la nostra montagna provo un senso di rigenerazione, non legato alla contrapposizione città- campagna, in cui potrei essere coinvolto dal fatto di viverne lontano e di poterne godere una tregua, e cioè il piacere del ritorno, ma derivante dall’ intima forza dell’appartenenza, che è qualcosa di fondamentale, di profondo, legata alla cultura del territorio, meno emotiva. Che mi fa ritornare in mente un’ idea incancellabile di cultura popolare, riferita al profilo antropomorfo della montagna, assimilato all’idea fiabesca da “bella addormentata”, dalle chiome calate verso la Valle del Calore e il corpo disteso verso la piana del Dragone, motivo di racconti e di suggestioni infantili.
Questa è in definitiva la cultura del paesaggio, consapevolezza privata e pubblica che un bene è tuo e degli altri, e quindi da consegnare alle future generazioni nella sua integrità».
Ha un ricordo particolare di questi luoghi
«Le lontane passeggiate in bicicletta lungo la vecchia rotabile, che costeggia il massiccio del Monte Toro, in un paesaggio bucolico di alacre vitalità, pieno di gente che lavorava nei campi e di suoni e voci della natura, e soprattutto un luogo di incontri giovanili, il cui nome in dialetto, ’o belloveré”, cioè belvedere racchiude il pensiero dell’antica sobrietà estetica contadina. Un luogo che si presenta da sé e che può essere svilito da un parco eolico che lo sovrasti, assimilandolo a una inesorabile clonazione».
Fin qui le analisi, ha una idea trainante per questa rivendicazione?
«Leggo che l’amministrazione comunale di Montemarano si sta attivando per scongiurare questo insediamento, mi verrebbe da dire “insidiamento”, e che la cittadinanza è pronta al sostegno incondizionato per riuscirci: questo mi conforta. Intanto vorrei suggerire come momento di propositiva mobilitazione collettiva di tenere una “Festa del paesaggio” sul Monte Toro, evocando, con il ricordo delle “Ver sacrum”- le primavere sacre degli antichi sanniti che si tennero anche quassù- tre concetti fondamentali: rispetto dell’appartenenza, del futuro e dell’habitat»